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Libertà di stampa: ieri, oggi, domani.

‘È quasi uguale uccidere un uomo che uccidere un buon libro. Chi uccide un uomo uccide una creatura ragionevole, immagine di Dio, ma chi distrugge un buon libro uccide la ragione stessa, uccide l’immagine di Dio nella sua stessa essenza’.


Sono queste le parole che John Milton scrisse nel 1644 all’interno della sua opera “Areopagitica” indirizzata al parlamento inglese. John Milton, conosciuto per la sua celebre opera “Paradise Lost”, è spesso ricordato per i suoi toni critici nei confronti di una società “falsamente democratica”, come lui stesso affermò. Ed è proprio nello scritto in questione “Areopagitica”, che quest’autore lottò contro il Licensing Act, legge inglese sulla censura dei testi scritti. Milton, in quest’opera, cercò di difendere il principio di libertà espressiva e dunque della contrapposizione tra differenti politiche morali cercando di portare in risalto l’importanza dell’esternazione personale attraverso la scrittura. Furono le stesse parole di Milton a contribuire nel fondamentale passo che l’Inghilterra arrivò a compiere nel 1695: l’abolizione della censura. Furono i suoi toni aspri a cooperare all’apertura della strada verso la libertà di stampa anche nel resto degli altri paesi, varcando finalmente le porte di un nuovo mondo basato sulla libera informazione. Furono i suoi pensieri critici a preannunciare il sorgere di un’alba di coscienze attive (non più passive) in continuo fermento.

Quasi dopo un secolo la libertà di stampa venne affermata anche in Francia, in seguito allo scoppio della Rivoluzione Francese nel 1789, proclamata ufficialmente dalla ‘Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino’ approvata dall’Assemblea Nazionale. Nel 1791 negli Stati Uniti la libertà di parola e di stampa venne ammessa in forma assoluta nel Primo emendamento alla costituzione:

“Il Congresso non promulgherà leggi (…) che limitino la libertà di parola, o di stampa”.

L’industria giornalistica si sviluppò, la libertà di stampa venne proclamata nei paesi più avanzati arrivando a trionfare definitivamente nel periodo conosciuto come l’età d’oro della stampa, ovvero quello a cavallo tra Ottocento e Novecento. Nel 1848 la libertà di stampa fu proclamata dallo Statuto albertino, concesso dal re Carlo Alberto di Savoia e applicato poi al Regno d’Italia nel 1861. Tuttavia, con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la libertà di stampa cominciò a ricevere i primi di una lunga serie di attacchi, permanenti ancora al giorno d’oggi. Lo storico e accademico italiano Mario Isnenghi afferma:

“La guerra è il momento in cui la verità sulla condizione di subordinazione del campo giornalistico viene rivelata”

I quotidiani divennero così strumenti di propaganda, le notizie venivano filtrate attraverso una censura serrata: i governi non volevano permettere che la popolazione venisse a conoscenza di ciò che realmente avveniva sui campi di battaglia. Negli Stati europei che erano in guerra la censura iniziò con l’aprirsi delle ostilità, e pur allentandosi gradualmente, rimase sufficientemente rigida da consentire il controllo sulla diffusione delle notizie. Un controllo distruttivo, pericoloso che fece cadere la stampa in una crisi senza precedenti ma con successivi. Con l’arrivo della Seconda Guerra Mondiale, la stampa venne annientata per una propaganda all’odio, strumentalizzata per divenire voce di un regime autoritario dispotico. La libertà di stampa venne definitivamente divulgata a fine della Seconda Guerra Mondiale dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nell’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti umani (1948) che afferma:

“Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”


Il dibattito sulla libertà di stampa e i suoi eventuali limiti non è dunque nuovo, ma si è riacceso proprio in relazione a recenti eventi. Come ci riporta la celebre organizzazione non governativa “Reporter Senza Frontiere”, nella classifica sulla libertà di stampa che l’organizzazione redige ogni anno (basata su un questionario distribuito ai giornalisti), più di un terzo della popolazione mondiale vive in nazioni dove non esiste libertà di stampa a causa di un sistema democratico inesistente o falso (come avrebbe detto John Milton). Stati in cui la stampa è propaganda mantenitrice di un potere politico invasivo e tiranno, dove i giornalisti sono intrappolati all’interno di limiti nocivi alla reale informazione. Una situazione allarmante della quale per accorgersi basta guardare la mappa allegata al report di Rsf: la maggior parte degli stati è colorata di arancione o rosso, due colori che ormai (malauguratamente) abbiamo imparato essere segnalatori di un livello di allerta alto. Ma il colore che evidenzia la condizione peggiore per la libertà di stampa è il nero, che ricopre tutto il territorio cinese. Una situazione critica quella cinese, che per il secondo anno consecutivo si ritrova al primo posto nella classifica mondiale dei giornalisti detenuti secondo l’analisi dell’organo di controllo della libertà di stampa Cpj (Committee to Protect Journalists).

Giornalisti che vengono intimiditi, che non sono liberi di diffondere il benessere centrale della società: l’informazione. Giornalisti che vengono detenuti, minacciati perché eseguono il fine ultimo dell’informazione: il costante rispetto della verità.

Continui episodi di aggressione, dove la libertà di stampa è al confine tra una situazione drammatica e una situazione irrecuperabile, senza ritorno.

Con l’arrivo della pandemia, il flusso di informazioni (certificate e non certificate) sul Covid 19 è stato invasivo e sovraccarico, costituendo un importante capitolo senza precedenti nel grande libro storico della comunicazione pubblica. Tali informazioni hanno scaturito in ognuno di noi motivi di preoccupazione ma al tempo stesso, le informazioni sono state le prevenzioni contro una malattia più grande: la paura. Perché è grazie alle informazioni, verificate e accreditate, che l’uomo ha saputo adottare il giusto codice comportamentale e morale per affrontare il nemico sconosciuto. Perché le informazioni ci hanno concesso un minimo di certezza che ha subito preso il posto dell’incertezza iniziale, causa di destabilizzazione e confusione. Tuttavia, anche in questa situazione sono stati penalizzati coloro che hanno voluto far luce e chiarezza sul periodo buio e ignoto. È il caso di Zhang Zhan, ex avvocata e giornalista cinese condannata a quattro anni di carcere il 28 dicembre 2020, per aver documentato l’inizio della pandemia a Wuhan.

Zhang ci fa vedere la gestione primordiale della situazione pandemica ben diversa da quella che era stata mostrata e narrata dal governo cinese. Zhang Zhan illustrava e documentava con i propri social media l’affollamento degli ospedali, con corridoi pieni di letti. Zhang voleva mostrare la realtà, cercando così di raccogliere le opinioni delle persone che stavano vivendo in prima persona la gestione di una situazione così complessa e totalmente nuova. La raccolta di testimonianze si è rivelata complicata come previsto poiché coloro che dovevano essere i testimoni di una triste pagina storica, della quale tutti dovevamo essere perfettamente al corrente, si sono convertiti in omertosi intimoriti da una dittatura di terrore, rifiutandosi di parlare. E quando la voglia di parlare e di dire la verità superavano il terrore, le persone chiedevano di non essere inquadrate. Zhang Zhan è stata così accusata per “aver provocato litigi e problemi per false informazioni”, condannata all’ennesima azione di bavaglio alla libertà.

Zhang Zhan rappresenta uno tra gli innumerevoli esempi di soppressione dell’elemento essenziale che spinge ognuno di noi a riflettere, a formulare un’opinione, che spinge a prendere delle decisioni e ad agire: l’informazione.

L’ennesimo episodio di un potere che cerca di tarpare le ali all’opinione e alla libera informazione, un potere che vuole nutrirsi dell’ignoranza di un popolo che lui stesso governa.

Cominciamo a preoccuparci di un problema che anche se non ci tocca personalmente, ci riguarda collettivamente. Cominciamo a pensare che la realtà della libertà di stampa cinese (una realtà presente in altri paesi come l’Eritrea, Corea del Nord, Arabia Saudita, Iran, Vietnam…) ha l’obiettivo di mantenere lo spirito combattivo del proprio popolo, in uno stato vegetativo fino a farlo scomparire.

Ogni voce critica sa di potersi aspettare giudizi e ritorsioni, ma libertà di stampa non significa avere la vita distrutta, non significa dover rinunciare ad un percorso professionale.

Libertà di stampa vuol dire lasciare le mani di ogni giornalista libere di ballare un "tiptap" sulla tastiera del computer. Libertà di stampa vuol dire libera circolazione di pensieri e informazioni, vuol dire risveglio delle coscienze e lotta culturale. La libertà di stampa è divulgazione della storia e dell’apprendimento. La libertà di stampa è un diritto di cui ogni Stato dovrebbe garantire ma per il quale dobbiamo costantemente lottare.

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