top of page

L’eredità di Černobyl’

È consuetudine dell’umanità relegare eventi passati a semplici ricordi, fatti ininfluenti nell’avanzata del placido fiume della storia. Al giorno d’oggi, in effetti, il più grande disastro nucleare della storia occidentale, appare come un labile ricordo alla nostra generazione; un tacito evento che, per quanto traumatico, ha avuto un inizio e una fine. Eppure sembra che, occultati ai nostri occhi, gli effetti di Chernobyl non abbiano mai smesso di ledere alla salute umana e del nostro pianeta. Essendo, suo malgrado, un evento noto ai più, eviterò di soffermarmi eccessivamente sui fatti che condussero alla catastrofe, quanto piuttosto, sulle conseguenze delle emissioni di materiale radioattivo che si verificarono a seguito dell'incidente. Ad ogni modo, al fine di disporre di un quadro completo, può giovare ripercorrere brevemente quanto accaduto.


I fatti: Tutto ebbe inizio il 26 aprile del 1986, nella centrale nucleare di Chernobyl, a circa 100 km a nord di Kiev, capitale dell’Ucraina (all’epoca sotto il controllo dell’URSS). L’impianto sorgeva a circa 20 km dal centro abitato di Chernobyl e a 16 km dal confine Bielorusso. Si trattava di una centrale nucleare a fissione tradizionale, che si serviva di quattro reattori separati. Detto in breve, il funzionamento generale è il seguente: in una zona del reattore (chiamata “nocciolo”) avviene la fissione di atomi di uranio e altri atomi pesanti, inseriti attraverso delle “barre” rivestite di carburo di boro e grafite; dall’energia scaturita dalla fissione si produce del calore che viene sfruttato per portare dell’acqua al punto di ebollizione. In seguito il vapore prodotto viene incanalato all'interno appositi condotti e sfruttato per far muovere una turbina, dalla quale si ricava energia meccanica, trasformabile in energia elettrica tramite un generatore. Infine un sistema idraulico garantisce l’apporto di acqua fredda (per il reattore) e calda (spedita alla torre di raffreddamento).


Funzionamento centrale nucleare

Quel fatidico 26 aprile 1986 erano in corso alcuni test nel reattore n. 4 per valutare la tenuta della produzione anche in assenza di energia esterna (per un lasso di appena 60 secondi, tempo necessario all’attivazione del motore diesel di supporto). Da notare che un esperimento simile aveva condotto, appena pochi mesi prima, a un’esplosione nel reattore 1 (con conseguente emissione di materiale radioattivo). Il danno però, in quell’occasione, era stato minimo e il governo sovietico aveva tenuto segreta la notizia. Come già avvenuto nel caso precedente, anche nel reattore 4 vennero disabilitati i principali sistemi di sicurezza (con i quali esso probabilmente, una volta avviato il drammatico test, si sarebbe spento evitando il disastro). Per compensare venne ridotta la potenza del reattore. Poco dopo tuttavia, in seguito a un errore di collocazione delle barre di uranio, il reattore perse ulteriormente potenza, scivolando ben al di sotto del livello minimo critico. A quel punto, invece di disattivare il reattore e annullare il test, fu scelto di proseguire estraendo temporaneamente tutte le barre di uranio dal nocciolo ad eccezione di sei (quando il protocollo di sicurezza raccomandava il mantenimento di almeno 30 barre), al fine di permettere un incremento di potenza. In pochi secondi dall’inizio dell’esperimento, la potenza generata dalle fissioni raggiunse 33MW termici (circa 10 volte la normale potenza), sprigionando un calore in grado di fondere persino le barre presenti nel nocciolo. Frattanto, fondendosi anche le tubature, lo zirconio presente in esse reagì con l’acqua dissociandosi e liberando un’immensa quantità di idrogeno gassoso. La reazione tra la grafite (presente nelle barre) e l’idrogeno generò un’esplosione che distrusse totalmente la copertura superiore del reattore, permettendo al vapore radioattivo, formatosi dal nocciolo fuso, di fuoriuscire liberamente. Stime odierne affermano che la potenza del combustibile fossile fu tale da sollevare una colonna di fumo radioattivo fino a due chilometri di altezza.

Colata del nocciolo fuso

Quando i primi operai giunsero sul luogo, osservarono che il nocciolo incandescente era ormai liquefatto e sprigionava costantemente vapori radioattivi. Nelle prime ore i rilevatori segnarono un valore di radiazioni pari a 20 000 röntgen/ora. Giusto per fare un confronto, il livello medio di radiazione nell’atmosfera terrestre al livello del mare è di circa 0.00002 röntgen/ora. Le radiazioni del reattore 4 di Chernobyl, insomma, erano di circa 1 miliardo di volte superiori alla norma in natura. Si stima inoltre che in poche ore un essere umano possa essere ucciso da un valore di radiazioni prossimo a 700 röntgen/ora. Quest’informazione non era nota né a molti operai del reattore né alle squadre di pompieri che tentarono in ogni modo di spegnere le fiamme. Per questo motivo, molti di essi, pagarono con la vita.


Immagine dall'alto del reattore fuso

Le conseguenze: La nube radioattiva generata dall’esplosione del rettore si diffuse rapidamente in Europa spinta dai venti provenienti da est. L’URSS, dal canto suo, frenata dalle tensioni della guerra fredda, tentò per quanto possibile di occultare il fatto. Il governo rifiutò persino di annullare le parate di stato a Kiev e a Mosca, fissate per il primo maggio. Tuttavia, già dal 27 aprile le scorie raggiunsero la Svezia e il Mar Baltico, dove si registrarono picchi anomali di radiazioni. Pochi giorni più tardi lo stesso avvenne nei Balcani, nel Nord Italia, in Francia e in Gran Bretagna. Le prime dichiarazioni ufficiali del governo sovietico giunsero solo due giorni dopo l’esplosione, quando ormai l’intera popolazione nel raggio di 30km da Chernobyl era stata fatta evacuare.


Foresta rossa di Chernobyl, ormai quasi del tutto estinta a causa delle radiazioni e degli incendi
La Foresta Rossa di Chernobyl

Nel frattempo gli elicotteri dell’esercito scaricavano sul reattore quasi 5 000 tonnellate di sabbia, piombo, boro e altri materiali pesanti, nel tentativo di bloccare la fuoriuscita di ulteriori scorie. Per undici interminabili giorni il nocciolo fuso continuò a bruciare sfruttando la combustione della grafite. Contrariamente alle aspettative, il materiale radioattivo, seppur in maniera ridotta, non cessò di diffondersi nell’aria. Solo il 14 dicembre del 1986 (quasi sette mesi più tardi) fu ultimata la costruzione del “sarcofago”, un rivestimento di 300 000 tonnellate di cemento e materiali pesanti che arrestò in larga parte le emissioni.

Ebbe inizio così il computo delle vittime. Il primo bollettino sovietico riportava 30 decessi. Nel rapporto ufficiale odierno sono attribuite al disastro “solo” 65 vittime: 28 addetti scomparsi nella prima settimana, 19 addetti scomparsi dopo pochi anni, 15 civili. Questo bilancio, ampiamente criticato dalla comunità scientifica, comprende unicamente le persone scomparse (fino al 2002) in seguito ad una permanenza all'interno della centrale nei giorni successivi all'esplosione del 26 aprile. Esso cela, purtroppo, una realtà ben più drammatica.

Anzitutto il rapporto sovietico non considera i cosiddetti “liquidatori”, ovvero un corpo di circa 600.000 cittadini (alcuni ritengono anche 800.000) inviati a Chernobyl nei mesi successivi alle esplosioni. Si trattava di militari, operai, o semplici residenti del luogo, il cui unico compito era quello di contribuire alla costruzione del sarcofago e all’arresto delle emissioni. Eroi, spesso dimenticati, senza i quali probabilmente il bilancio delle vittime sarebbe stato ben peggiore. Secondo le analisi della Chernobyl Union, ciascun di essi fu esposto ad una radiazione giornaliera tra i 120 e i 60 m/Sv (l’equivalente della dose ritenuta “sicura” nell’arco di un anno). Si stima che 25.000 liquidatori persero la vita nei primi due anni per tumori tiroidei o ai reni e che oltre 70.000 siano ad oggi invalidi a causa dell’eccessiva esposizione a radiazioni gamma. Il bilancio, col passare degli anni, è in continuo peggioramento. Basti pensare che una relazione del governo Bielorusso ha evidenziato come il 10% dell’odierna popolazione statale affetta da disabilità abbia prestato servizio a Chernobyl.

Ancor più impressionanti risultano i dati del governo Kazako: dei 32 000 liquidatori inviati a Chernobyl, meno di 6 000 sono sopravvissuti (circa il 18%). Come se non bastasse, i figli di coloro che vissero e lavorarono per l’edificazione del sarcofago presentano un’incidenza di danni cromosomici superiore di 7 volte alla media mondiale. Infine, tra i civili della “zona rossa”, di raggio 30 km dalla centrale, quasi 4500 persone (per lo più bambini o adolescenti all’epoca del disastro) hanno contratto ad oggi un cancro tiroideo in età adulta.

Crescita mondiale delle diagnosi di cancro alla tiroide dalla data del disastro (linea in rosso)

Le conseguenze del più grande disastro nucleare della storia non si limitarono unicamente alle zone limitrofe: come detto, la nube si diffuse rapidamente in Europa e Asia, per poi disperdersi nell’atmosfera terrestre o depositarsi sulla superficie. Per intere settimane i contatori Geiger del nostro paese, in particolare al nord Italia, registrarono forti anomalie di radiazioni persino sul manto stradale e sulle pareti delle abitazioni. Inoltre, nel corso dei mesi successivi alla catastrofe, latticini e carni bovine contaminate provenienti dalla zona di Kiev non cessarono di essere esportati e consumati in tutto il blocco sovietico. La diretta conseguenza di questa scelta scellerata fu un aumento esponenziale delle diagnosi cancro alla tiroide, per azione della radioattività da Iodio 131. Le contaminazioni tuttavia presentarono effetti a lungo termine (soprattutto sulla popolazione giovanile), cosicché su scala mondiale, a partire dal 1995 fino ad oggi, si riscontra una crescita vertiginosa dei casi. Fortunatamente i progressi della medicina moderna hanno permesso al genere umano di limitare i decessi, garantendo una guarigione da cancro tiroideo prossima al 90%. Malgrado ciò, altre patologie, tra cui cataratta agli occhi, tumori alla pelle, problemi cardiaci, malattie mentali, infezioni e tumori all’apparato digerente e urinario, sono in costante crescita nelle fasce di popolazione che per anni è stata maggiormente esposta alle scorie radioattive. In Bielorussia è stata persino ipotizzata una correlazione tra il disastro nucleare ed il calo demografico che interessa la popolazione nell’ultimo trentennio: da 10.2 milioni di abitanti nel 1990, si è passati a 9.4 milioni nel 2018. A gravare sulla situazioni anche l’incidenza di malattie infantili: su 70 000 nascite annuali, in media 2500 neonati nascono con gravi difetti genetici.











87 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page