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Una matrice perpetua di odio

«Lo sport è l’ultimo bastione in cui il razzismo può esprimersi pubblicamente e, troppo spesso, impunemente». Così, profondamente turbato dalla vorticosa spirale d’odio generatasi nello sport, asseriva il professor Patrick Clastres. Innegabile è che negli ultimi anni la tematica in questione, specie in seguito all’omicidio di George Floyd, sia ormai parte integrante del dibattito socio-politico mondiale. Eppure talvolta, parlando di razzismo in ambito sportivo, si percepisce una certa distanza dal fenomeno, come se, pur trattandosi di una vistosa quanto soffocante macchia di petrolio in un mare cristallino, non ci riguardasse in prima persona; come se noi, insomma, ne fossimo ampiamente esentati, spettatori inermi di un indegno spettacolo. Ciò nonostante, gli eventi sportivi che, loro malgrado, si caratterizzano per discriminazioni di qualsiasi tipo, altro non sono che la punta dell’iceberg, lo specchio di una larga fetta di società in cui i valori di uguaglianza, benché celebrati assiduamente, vengono sovente dimenticati. A tal proposito, immagino non sia neppure difficoltoso riportare la mente a recenti manifestazioni pubbliche di razzismo sportivo. In primo luogo partendo dal calcio, che da anni monopolizza la scena mediatica italiana. È ormai triste consuetudine di ogni stagione assistere ad eventi del genere: basti pensare ai cori razzisti rivolti a Romelu Lukaku e Kalidou Koulibaly (entrambi giocatori originari dell’Africa, in forza rispettivamente ad Inter e Napoli), oppure a quelli indirizzati a Mario Balotelli da parte del pubblico di Verona, che portarono l’attaccante a scagliare con veemenza il pallone contro la curva. Inutile dire che si tratta di alcuni casi eclatanti, tra le miriadi di discriminazioni a cui l’ambiente calcistico è destinato a sottostare. Sebbene il Campionato italiano non sia un caso unico in Europa, giova riportare le parole dell’ex capitano della Roma Edin Dzeko, secondo cui: «Il razzismo in Italia è un grande problema ed è più pesante che altrove». Naturalmente, il calcio non è l’unico sport in cui l’odio trova la propria manifestazione. Sotto questo aspetto, può essere esplicativo rivolgere uno sguardo oltreoceano. L’NBA Americana, fin dalla sua nascita caratterizzata da un ambiente etnicamente eterogeneo, ha sempre rappresentato una prima linea nella guerra al razzismo sportivo. Ciò nonostante, ancor’oggi sembra che l’obbiettivo di estirpare il fenomeno sia tutt’altro che prossimo. È sufficiente richiamare alla memoria quanto avvenuto lo scorso 12 marzo, durante un match tra gli Utah Jazz e gli Oklahoma Thunders, quando un tifoso gridò ad un giocatore ospite di colore: “Mettiti inginocchiato come sei abituato a fare”, con palese allusione allo schiavismo nero. In seguito, l’allora stella dei Thunders, Russell Westbrook, raccontò quanto accaduto alla stampa, suscitando una profonda indignazione dell’opinione pubblica. Indignazione tale da spingere gli Utah a bandire il tifoso a vita dal palazzetto. In egual modo, numerosi altri sport sono stati, quali più quali meno, macchiati da gesti simili. Persino l’atletica leggera, la culla della diversità etnica e delle proteste antirazziali (da Jessie Owens, fino al guanto sollevato di Tommie Smith) non ne è del tutto libera. Ne ha fatto le spese nel 2018 Diasy Osakue, campionessa azzurra di origine nigeriana, nonché primatista Under 23 nel lancio del disco, alla quale sono state lanciate delle uova da un’auto in corsa durante il ritorno da un allenamento, ferendola gravemente ad un occhio. Ugualmente degno di nota è quanto avvenuto alla tennista afroamericana Serena Williams nell’Indian Wells Masters 2001: durante il match conclusivo tra Serena e la belga Kim Clijsters, il pubblico, contrariato anche dalla cancellazione dell’incontro precedente, si scagliò sulla Williams con insulti e provocazioni, rivolte anche alla sua famiglia. Anche in Formula 1, il pluricampione Louis Hamilton, spesso in prima persona impegnato nella tutela dei diritti delle persone di colore, nel 2013 fu bersagliato da insulti provenienti dai tifosi spagnoli stanziati nelle tribune della pista di Barcellona. Alla luce di quanto detto, urge denotare che sarebbe riduttivo limitare il fenomeno all’insulsa quanto infondata discriminazione legata al colore della pelle. L’odio sportivo è stato anche espressione di rigido nazionalismo, incapace di accettare la vittoria altrui. Ad esempio, guardando al mondo del ciclismo, nel Tour de France del 2015 il campione britannico bianco Chris Froome fu oggetto di sputi ed insulti da parte di tifosi francesi, alcuni dei quali gli gettarono contro, nel momento di sforzo massimale, persino un recipiente di urina. Vittima di insulti fu nel 2019 anche il talentuoso ciclista nostrano Vincenzo Nibali. Risultato affine si riscontra nell’ambiente del pugilato, nel quale Tyson Fury, campione del mondo dei pesi massimi, combatte da tempo con le discriminazioni ai danni dei gitani. Gli eventi citati sono, come in precedenza detto, lo strato più tangibile di una realtà drammaticamente radicata in gran parte della società odierna. La sensazione comune è che i valori essenziali, i pilastri portanti dell’etica sportiva (primo tra tutti il rispetto dell’avversario) siano talvolta relegati in secondo piano e dimenticati, per lasciar spazio ad un vano interesse nell’infierire, nello schernire il proprio avversario. Dunque prima ancora di apprendere la tecnica, l’abilità, la dedizione, è necessario combattere l’ignoranza ed abbattere gli arcani pregiudizi cui la società è purtroppo ancora in buona parte legata. Solo in questo modo la sana competizione eviterà di sfociare nella mera avversità, nell’odio nei confronti del rivale. Forse un giorno, grazie all’esempio di grandi atleti e persone, lo sport acquisterà finalmente il proprio carattere cosmopolita e la propria funzione unificatrice. Forse un giorno, assisteremo ad uno sport svincolato e depurato dai limiti del razzismo.


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