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Un mondo di camaleonti omologati

Aggiornamento: 27 feb 2021

Ognuno di noi soffre di una sindrome comune. Di che sindrome stiamo parlando?

La sindrome di Zelig, anche detta sindrome del camaleonte.

Si tratta di una sindrome da “dipendenza ambientale”, ogni uomo tende a cambiare la propria identità a seconda del contesto in cui si trova, degli oggetti che ha attorno e delle persone con le quali entra in relazione.

Ognuno di noi, in qualunque contesto si trovi, dimostra una mancanza di autenticità nel contatto con la realtà esterna e quindi gravi difficoltà a gestire la propria personalità e il proprio “io”.

Questa sindrome deriva da un’importante perla del cinema rimasta nell’oscurità sin dalla sua uscita nelle sale nel 1983; il film Zelig del famoso Woody Allen.

Zelig che sembrerebbe un documentario o un racconto biografico, collocato a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, in realtà è un film satirico che ci offre un’importante riflessione sulla società di massa.

Il film parla di quest’uomo, Leonard Zelig, che tende a trasformarsi in base al contesto in cui si trova. Dopo ripetute trasformazioni estetiche, trasformazioni vocazionali in persone di etnie e religioni differenti dalla sua, viene definito come affetto dalla Sindrome del Camaleonte (oggi definita in medicina come Sindrome di Zelig).

L’unica terapia che sembra salvarlo è l’amore per una dottoressa che dopo un lungo isolamento imposto dalla donna, e dopo svariate conversazioni intrattenute da quest’ultima, Zelig mostra ottimi risultati. Ma le correnti esterne ritornano nuovamente all’interno della sua vita fino a far riaffiorare il problema tantoché Leonard si rifugia in Europa travolto dal nazismo che cominciava a regnare.

Woody Allen ci dà la possibilità di riflettere sulla società di massa e di un fenomeno ormai in piena fermentazione tramite il cinema, uno degli strumenti di omologazione alla massa.

Forse il famoso regista ci vuole far capire che è un fenomeno impossibile da evitare, che per quanto ci ostiniamo ad essere autentici nella nostra unicità, il mondo esterno e ciò che ci circonda avrà sempre un impatto su di noi tale da plasmarci (completamente o solo in parte).

Ci omologhiamo per sentirci alla pari, perché alla fine essere uguali ci fa stare bene e a nostro agio, da sempre. Soprattutto ci fa sentire meno soli.

Erich Fromm, psicologo sociologo e filosofo, ha descritto l’uomo moderno come un individuo con due volti: da un lato indipendente, autosufficiente e critico, dall’altro lato isolato e impaurito. Il sentimento di isolamento è spaventoso, così l'uomo tende a stemperarlo nella routine quotidiana, nel successo economico, nella musica, nell’arte e in altri ambiti conformisti della società in cui vive, che tendono a modellare le sue energie psichiche in modo tale che l’uomo faccia volentieri quello che in realtà deve fare, affinché la società possa continuare ad esistere.


“Dalla nascita alla morte, dal lunedì alla domenica, da mattina a sera, tutte le attività sono organizzate e prestabilite. Come potrebbe un uomo prigioniero nella ragnatela della routine ricordarsi che è un uomo, un individuo ben distinto […] col desiderio di amare e il terrore della solitudine e del nulla?” (Erich Fromm, libro L’arte di amare pagina 28-29).


La paura dell’isolamento causa l’omologazione ma provoca un’ulteriore conseguenza: la spirale del silenzio.

Se molti preferiscono omologarsi alla maggioranza per sentirsi meno soli, chi ha un’opinione difforme preferisce sparire, tacere e sprofondare così nella spirale del silenzio. Il disaccordo con amici, familiari e l’armonia sociale può portare ad uno stato più elevato di paura dell’isolamento sociale causando l’effetto del silenziamento.



In qualche modo la sensazione di unione ad una circostanza più ampia e la sensazione di parità ci sembrano un vantaggio, ma ci accorgiamo anche di quante personalità vengono annientate.

E quando ci accorgiamo di questo nostro limite cerchiamo di non essere conformi agli altri, distinguendoci e facendo risaltare la nostra personalità.

Ma secondo un antropologo francese, René Girard, questo atteggiamento che prende il nome di anticonformismo si basa comunque sulla massa conformista di persone.


“La persona anticonformista non vuole assomigliare al resto degli uomini e decide volontariamente di alterare il suo comportamento o atteggiamento per sollevarsi al di sopra del gruppo. L’anticonformista non è nient’altro che un ulteriore individuo conformista che si ispira a quegli anticonformisti che lo hanno preceduto o che lo circondano; la diversità si trasforma quindi in un anticonformismo obbligato che soffoca l’autenticità del soggetto”.


Secondo Girard la causa scatenante di questo contorto meccanismo della natura mimetica è il desiderio. Le nostre azioni sono sempre determinate di volta in volta da un desiderio che non sempre è nostro.

L’antropologo crede che ognuno di noi quando riconosce la realizzazione o la felicità in un’altra persona siamo pronti a desiderare anche noi a quella felicità.

Il desiderio è contagioso anche in chiave negativa. Quando ci allontaniamo dal comportamento di qualcuno di cui non abbiamo stima, stiamo cercando di non imitarlo, semplicemente non abbiamo il desiderio di essere come lui. Siamo sempre nell’ordine, anche se negativo, dell’imitazione.

“La tendenza mimetica fa del desiderio la copia di un altro desiderio e sfocia necessariamente nelle rivalità” (René Girard, La Violenza e il sacro, 1990)


Quindi se l’anticonformismo diventa esso stesso una modalità identica al conformismo, è ancora necessario fare una distinzione?

E questa distinzione è causata dalle nostre differenze o semplicemente dalle nostre somiglianze?

Forse, unicamente, siamo tutti degli esseri camaleontici, siamo tutti un po’ Zelig. E se qualcuno pensa di no, provate a concentrarvi, pensate a tutte le volte che avete attraversato la strada senza notare il semaforo rosso, ma avete visto gli altri davanti a voi che facevano lo stesso. Pensiamo a tutte le volte che ci siamo trovati allo stadio, a delle manifestazioni ad urlare inni o motti non conoscendone il vero significato oppure essendo in pieno disaccordo, continuando comunque ad urlare a squarciagola.

Pensiamo a tutte quelle volte in cui ci siamo uniti ad un applauso senza sapere il reale motivo per il quale stavamo applaudendo.

Pensiamo a tutte le volte in cui abbiamo soppresso il nostro modo di pensare per unirci al pensiero popolare.

Ciò non vuol dire che non siamo unici e che siamo tutti uguali.

Ciò non vuol dire che siamo unici e che non siamo tutti uguali.

Perché ognuno di noi ha sicuramente qualcosa che ci differenzia qualitativamente dall’altro.

Perché per differenziarci dobbiamo far uscire la nostra diversità pensando che quest'ultima rappresenta una risorsa e non un limite.

Perché per differenziarci dobbiamo abbandonare quell'agorafobia che intrappola la nostra diversità, pensando che quest'ultima è il presupposto non solo della nostra esistenza ma della conoscenza.


“Il compito principale della vita di un uomo è di dare alla luce se stesso trasformandosi in tutto ciò che è in grado di essere. Il risultato di tali sforzi sarà la sua personalità” -Erich Fromm.

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