Quando Totti fece vincere il terzo scudetto alla Roma
- Federico Roberti
- 12 mag 2020
- Tempo di lettura: 4 min
Ci sono attimi e attimi. Tutti razionalmente uguali, ma tutti radicalmente diversi. Attimi che mutano forma e camaleonticamente si adattano alle nostre emozioni, ai nostri battiti del cuore, alla lucentezza dei nostri occhi. Le differenze esternamente sono impercettibili, anzi forse non ci sono proprio. Il tempo, quello che viene segnato dall'orologio, scorre con la stessa imprescrivibile cadenza. Però l'altro tempo, quello emotivo che ognuno di noi vive dandogli un'interpretazione soggettiva, assume sfumature boreali, impossibili da etichettare, impensabili da catalogare.
Il 17 giugno del 2001 ognuno ha vissuto una realtà a se stante. Impossibile pensare che tutti stessero vivendo quegli istanti nello stesso modo e con la stessa intensità degli altri. Però allo stesso tempo tutti respiravano nella stessa enorme bolla che nulla aveva a che fare con il mondo esterno, fatto di preoccupazioni, scadenze e impegni. Quel giorno, in quegli attimi senza tempo, tutti facevano parte della stessa dimensione magica in cui tutto era concesso per chi avesse al collo una sciarpa giallorossa. E fra tutte le foto storiche che sono state scattate quel giorno, una è diventata la copertina di un libro dal numero di pagine indefinito, che odora ancora di felicità.

IL PENDOLO
Diceva Schopenauer che la vita è un pendolo che oscilla tra la noia e il dolore, passando solo per un istante al centro, idealmente rappresentato dalla felicità. La settimana che ha portato la Roma a giocare l'ultima partita del campionato 2000-01 contro il Parma in casa, è stata la prova che forse il filosofo tedesco non aveva esagerato nel pessimismo.
Perché appena 7 giorni prima del Parma, la Roma per 29 minuti aveva vinto lo scudetto. Contro il Napoli, in Campania, gli uomini di Capello fino all'81' erano stati avanti sul 2-1 grazie alla rimonta di Batistuta e Totti. Sembrava che il sogno fosse prossimo a diventare realtà, ma poi il gol del definitivo 2-2 di Fabio Pecchia aveva gettato in una psicosi collettiva tutta la capitale. Inoltre la terribile lite di fine partita tra Capello e Montella sembrava il fattore definitivo che non faceva sostare neppure per un attimo il pendolo nella stazione centrale. All'orizzonte si scrutava solo noia, dolore e anche tanta angoscia. E invece di attimi per contraddire Schopenauer ce ne sarebbero presto stati a sufficienza.

L'AFA
C'era l'afa, a Roma, il 17 giugno 2001. Tanta afa, che non faceva respirare le 75.000 anime accalcate allo stadio - anche se probabilmente erano molte di più - e non faceva respirare neanche chi la seguiva da casa, o in qualche pub o in qualsiasi altro posto nel mondo. Era un'afa collettiva, concreta ma anche metaforica, che seccava la gola e intorpidiva le speranze, che annullava la salivazione e faceva impantanare il tempo prima che l'arbitro Braschi di Prato decretasse l'inizio del match.
Sulle tribune tutti erano vestiti di rosso, per dare l'effetto ottico di una compattezza inscindibile, che tanto nei corpi quando nell'anima era più che mai reale, quasi tangibile. Di bandiere che venivano agitate ce n'erano a tonnellate, e quasi sembrava che si dimenassero per conto loro, quegli stendardi, al limite del soffocamento in quella giornata in cui il vento era in sciopero, forse aveva deciso di assistere alla partita da lontano per non soffrire. Più che un match di calcio sembrava un rito esoterico. Ognuno con le sue fissazioni, i rituali, le tradizioni da rispettare, la voce ora bassa ora alta, ad alternarsi tra preghiere interiori e cori assordanti. Gli opposti complementari che mai come in quella giornata trovavano armonia a Roma, allo Stadio Olimpico, nei 90 minuti che potevano scrivere una nuovo maestoso libro di storia romanista. Mancava solo la copertina.
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TOTTI
E poi è arrivata la copertina. In modo naturale, si è stampata da sé, senza chiedere il permesso a nessuno, perché tanto tutti avrebbero acconsentito. È il minuto 19 quando l'attimo si trasforma in leggenda, quando il pendolo viene distrutto e assume le forme di una sciarpa giallorossa sventolata nella folla e quando le corde vocali di migliaia di persone diventano tamburi d'amore.
Candela mette in mezzo il pallone, Montella finge di avventarsi ma lo lascia sfilare con un velo che più che una giocata calcistica è una strategia militare. Poi arriva Totti e arriva il momento di tutti i tifosi della Roma. Il pallone abbraccia il collo destro del numero 10 e poi impatta contro la rete difesa da Buffon, che non può far altro che guardare.
L'esultanza è tutt'uno con il tiro, una prosecuzione perfetta del movimento compiuto per mandare il pallone in porta. Una corsa sfumata, troppo divina per delinearne i contorni, un momento mistico che non può essere catturato dalle parole ma può essere vissuto dalle emozioni.

C'è quell'istantanea che si è stampata nella retina di tutti i tifosi giallorossi e che non può più andare via, che non vuole più andare via. Totti sta correndo, si sta dirigendo verso la Curva Sud, quasi risucchiato dal boato primitivo degli spalti attorno a lui. La sua faccia è deformata dalle emozioni straripanti del momento, la bocca si sta allargando in un sorriso ma la mascella serrata lo fa più sembrare un atto di pura cattiveria. I muscoli dell'avambraccio sono contratti mentre Totti afferra la maglia e prova quasi a strapparsela di dosso.
Dietro di lui c'è Batistuta che ride, con i capelli fluenti che gli incorniciano il volto raggiante; Candela urla con la bocca spalancata e i pugni chiusi mentre insegue Totti nella corsa verso la felicità e Montella viene per metà nascosto dal corpo del capitano, ma dall'altra metà traspare un senso di pace totale. Il volto chino a ringraziare la terra, le mani verso l'alto a ringraziare il cielo.
L'afa era sparita, il vento partecipava alla festa con i tifosi della Roma. Dentro lo stadio Olimpico proprio come a Testaccio, a Santa Maria Liberatrice, Lungotevere, Via Marmorata e Via Galvani. Tutta Roma era giallorossa.

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