A tu per tu con Kefa: "Oggi sono Risorto"
- Federico Roberti
- 24 feb 2020
- Tempo di lettura: 8 min
C’è qualcosa di diverso oggi in Kefa. Lo so, lo sento, riesco a captarlo dalle vibrazioni che emana il suo corpo. E’ dal momento in cui gli apro la porta di casa e lo accolgo dentro che lo capisco. Nel momento in cui le nostre mani si salutano ho delle percezioni nuove. Ci conosciamo bene, d’altronde. Sono 5 anni che le nostre vite si sono intrecciate, ma mai come oggi capisco quanto serio sia per lui il progetto musicale che sta lanciando.
Scorgo nei suoi occhi una luce più chiara del solito. Come un’anima che vuole finalmente uscire, rivelarsi e farsi vedere da tutti. C’è una fame che non gli avevo mai visto prima.
E così si siede sulla sedia, accavalla le gambe e mi dice di accendere il registratore. Perché c’è una storia da raccontare. E un’altra ancora da scrivere.
Partiamo dall’inizio, dall’aspetto che è più in vista di te: il tuo nome. Kefa. Da dove prende origine questo nome? Da cosa sei stato ispirato?
Kefa ha 3 significati. Il primo è il più semplice ed è quello che gli è stato attribuito per primo. Kefa in aramaico ed ebraico vuol dire Pietro, allora ho pensato potesse essere carino sceglierlo come nome. All’inizio doveva essere solo un nickname da battle quando si faceva freestyle, ma poi è diventato il mio nome d’arte.
Un altro significato che gli si può attribuire è la forza. Una sorta di forza interiore, spirito combattivo. E qui ci ricolleghiamo alle battle. Kefa vuol dire anche pietra, da qui la forza della roccia, essere forte come una roccia. Infine anagrammandolo esce fuori, leggendolo al riocontra (contrario, ndr) esce fuori Fake. E’ come per dire che tutto ciò che faccio è vero.
Per farti conoscere partiamo dall’inizio: quali sono stati i tuoi primi passi nel mondo rap e gli impulsi che ti hanno portato a scrivere? Quando hai pensato “ok, voglio fare il rapper”, cosa hai fatto per iniziare?
Inizialmente scrivevo parodie delle canzoni più commerciali, la trovavo una cosa divertente. Poi vidi un’intervista di Fedez in cui diceva “per essere un rapper basta avere un foglio e una penna”. Visto che già mi dilettavo a fare qualche rima, ho deciso di provarci. All’inizio però ammetto che mi vergognavo. Per i primi 2 anni non lo sapeva nessuno, era una cosa che tenevo per me.
Quand’è stato che hai trovato la forza per dirlo?
Quando ho iniziato a crederci di più, dopo aver acquistato delle competenze che prima non avevo, come la padronanza della metrica, il saper andare a tempo. Prima il mio livello era troppo basso per farmi sentire da qualcun altro.

Parliamo ora dell’ambiente. Sai come spesso si racconti del rap come un’arte figlia di difficoltà sociali e ambienti di basso livello. Nel tuo caso ciò che ti circondava ha influito?
Direi di no. A me piaceva il rap come musica in generale e mi sembrava una cosa alla mia portata e ho scelto di esprimermi così. Ho iniziato a rappare quando avevo 12 anni, perciò questo mondo mi ha affascinato e rapito. Ogni aspetto più bello del rap ha contribuito a questo legame, mentre l’ambiente più squallido e malavitoso non mi ha mai riguardato.
Possiamo considerare il rap, in quanto genere musicale degno come tutti gli altri, una forma d’arte. Oltre a questa forma d’arte, hai altre declinazioni dell’arte che apprezzi?
La pittura mi piace da sempre, ma la mia scelta ricade senza dubbio sulla cinematografia. Devo dire che sono un appassionato di cinema da quando sono piccolo e crescendo la mia passione è aumentata a dismisura. Ho più consapevolezza di ciò che vedo ora.
Se dovessi scegliere 3 film che mi hanno colpito maggiormente e che mi hanno anche portato a pensare fuori dagli schemi direi: Scarface, Quei Bravi Ragazzi e The Wolf of Wall Street.
L’anello di congiunzione di questi 3 film è la rivalsa sociale dei personaggi, che non sono partiti dal mio stesso livello – Tony Montana ad esempio era un senza tetto, immigrato e con enormi difficoltà nell’integrarsi nella società – ma in parte in loro mi rispecchio. Apprezzo chi parte da una situazione più modesta e riesce a realizzarsi. Naturalmente il mio è un discorso che non riguarda la strada della malavita che poi hanno percorso, ma solamente la loro risalita sociale.
E nella tua musica porti questo ideale di voglia di emergere?
Assolutamente sì. Se guardo i miei coetanei, credo di rapportarmi alla vita in modo diverso da loro, con più attitudine al voler arrivare a tutti i costi a quelli che sono i miei obiettivi.
Entriamo ora in una sfera più tecnica. Parliamo del tuo modo di scrivere. Sai che il rap ha più sfaccettature anche per quanto riguarda l’approccio alla scrittura, è come se ci fossero più correnti di pensiero. C’è chi si “forza” e si mette a scrivere anche controvoglia pur di fare un pezzo e chi invece si lascia trasportare da un flusso creativo che può anche risultare sporadico. In quale corrente ti identifichi?
Non mi sono mai forzato e mai mi forzerò, perché credo che il flusso della scrittura, che è anche il flow che mi guida nei brani, è come un periodo di fertilità che arriva quando deve arrivare. Anche in questo momento che non sto scrivendo sono tranquillo, perché so che l’ispirazione tornerà e scriverò pezzi ancora migliori. Non mi forzo e non mi sento nemmeno di forzarmi. Non ho la paura di non scrivere, anche perché in caso contrario si sentirebbe l’artificialità del brano.
In occasione del lancio del nuovo disco “Persona”, Marracash, ha fatto dei post su Instagram mettendo le foto degli artisti con i quali ha collaborato, inserendo una breve descrizione per ognuno. Per Gue Pequeno, suo storico amico e collega, ha scritto questo: “Siamo diversissimi, quasi opposti su certi aspetti. A me il dolore paralizza, ho bisogno di viverlo fino in fondo, di annegarci, spremerlo e alla fine tirarci fuori qualcosa, magari. Gue ha bisogno di non pensarci, di seppellirlo di lavoro e serate finché non lo sente più.”
Tu che tipo sei? Riesci a trarre il massimo profitto dal dolore o hai bisogno che esso svanisca per metabolizzarlo e trasformarlo in musica?
Il dolore per me è uno stato più fertile. L’unica cosa positiva che trovo nel dolore è il fatto che incrementa la mia creatività. Dolore e rabbia sono sentimenti e stati d’animo che mi ispirano. Come dice Marracash anch’io ho bisogno di chiudermi e sentire nel profondo il dolore che provo, ma a me questo periodo di incubazione dura pochissimo. Riesco subito ad elaborarlo e poi riesco a reagire al meglio.
E per te la musica è uno dei modi migliori per superare il dolore?
Assolutamente sì. Senza la musica non saprei cosa fare e come farlo. La mia vita è la musica.

Partiamo dal presupposto che sei molto giovane. Alla tua giovane età, sentendo la tua musica, sembra esserci un sostanziale equilibrio nella ricerca della tecnica e del contenuto. Ma tu, quando inizi a scrivere una canzone, qual è l’aspetto principale che curi? E’ più importante far capire agli altri ciò che vuoi dire o dirlo con stile?
Credo che la tecnica sia un aspetto fondamentale. Mi piace scrivere le cose in maniera tecnica, fare molti tecnicismi anche per dimostrare che sono forte a farli, come se fosse una sorta di esercizio di stile. Mi sto accorgendo da un anno che ho evoluto il mio stile, che è molto importante anche il contenuto. Ma ovviamente questi aspetti variano anche a seconda della base sulla quale scrivo. Io metto la base in repeat e poi a seconda di ciò che mi suggerisce la base scrivo.
Vorrei fare un paragone con Michelangelo che prendeva i blocchi di marmo e tirava fuori le figure ma diceva che lì ce le aveva messe Dio; io dico che Dio mette i miei versi nella base e io li trascrivo. (Ride ndr)
Scherzi a parte, dipende tutto da ciò che mi fa provare la base.
Prima parlavamo di Gue Pequeno e Marracash, sicuramente due pilastri del rap nostrano. Quali sono gli artisti del rap italiano che più apprezzi e che hanno avuto un’influenza più tangibile nel tuo modo di approcciarti alla musica, di scrivere e di pensare il rap?
Le due cose sono collegate. Quando vedi un artista che ti piace molto cerchi di emularlo, che non vuol dire copiare, ma prendere il meglio dalla sua musica e riadattarlo. Ti faccio tre nomi: Madman, Nayt e Luché.
Madman lo ammiro per la tecnica, che è un aspetto che non trascura mai, nemmeno nei pezzi più profondi. Luché per i contenuti e la tipologia di brani che riesce a portare, soprattutto per la scelta lessicale, usa sempre dei termini forti che trasmettono delle emozioni.
Di Nayt al di là della tecnica, apprezzo molto la sua velocità, i suoi extrabeat micidiali.
Parlando di influenze, sei mai stato segnato da altri generi musicali che non siano il rap?
Mi sono avvicinato ad altri generi musicali, ma non mi hanno mai influenzato così tanto da volerli emulare e riportare nel mio rap. Se ti dovessi dire un genere musicale che ho ascoltato molto è il cantautorato italiano come Lucio Battisti, Rino Gaetano, Pino Daniele e ovviamente De André e poi il Pop Anni 80 e 90, come Micheal Jackson, Freddie Mercury. Queste sono state le influenze esterne al rap.
Ora torniamo al presente con la domanda più scomoda di tutte. Perché c’è stata questa pausa dall’ultima pubblicazione, “Quicksilver”, che risale a dicembre 2018? Cosa c’è stato in questo tempo di silenzio?
C’è stato un anno e mezzo di silenzio, è vero. Inizialmente questo silenzio non era stato calcolato. Dopo Quiscksilver sarei dovuto uscire subito con un altro video a distanza di un mesetto, ma poi ho pensato di sviluppare un progetto più grosso, di realizzare un EP. Quindi mi sono messo a pensare la mia musica in un progetto completo, non in un singolo da lanciare. Questo è stato un processo di sviluppo artistico che mi è servito per alimentare i miei stimoli e le mie capacità tecniche.
Quindi io e i miei produttori avevamo già tutto pronto. Avevamo 5 brani pronti, registrati ed eravamo prossimi a fare un video di lancio. La qualità rispetto al passato si era alzata ed eravamo convinti di quanto fatto.
Purtroppo poi però, due settimane prima di uscire con il progetto nuovo, ho scoperto di avere una malattia grave, un tumore, e da lì sono nate una serie di vicissitudini dalle quali sto uscendo adesso. Quindi ho dovuto fare 6 mesi tra ricoveri e ospedali. Sono tornato a scuola da poco, a gennaio e sto riprendendo pian piano le redini della mia vita.
E quanto ti hanno cambiato questi mesi di malattia?
Mi hanno cambiato totalmente. A livello psicologico, per come ora affronto la vita, è cambiato tutto. Prima ero più spensierato, ora sono più consapevole del fatto che tutto può svanire e quindi voglio godermi ogni momento al massimo. Ho molta fretta di emergere e voglio dimostrarlo con la qualità. Mi sto rivolgendo a professionisti del mestiere. Pretendo il meglio da me.

“Risorto”. E’ questo il nome del tuo nuovo singolo. Dopo che ci hai fatto luce su questi ultimi mesi della tua vita il significato del titolo è evidente. Cosa c’è dentro questa canzone?
Devo fare un piccolo spoiler. Spero che “Risorto” sia il primo di una serie di brani che pubblicherò. Paradossalmente questa tra tutte le canzoni che ho in cantiere è l’ultima che ho scritto. Non era previsto ma ho pensato che un pezzo che spiegasse tutta la situazione fosse perfetto, anche per chi mi seguiva e poi mi ha visto sparire.
“Risorto” è perché finalmente sono tornato e dentro questa canzone c’è rabbia, voglia di rivalsa e voglia di prendermi tutto. Sono ancora più affamato di prima. Prima forse mi mancava la scintilla che mi spingesse a dare il meglio di me. Ora curo tutto di più. I video, le foto, i post e tutto il marketing che c’è dietro.
Analizzando il testo della canzone, l’ultima strofa è quella che più rispetto alle altre lascia trasparire ciò che provi e ciò che hai passato.
“Quanta gente è scomparsa, voglio la mia rivalsa, non scorderò i tramonti guardati da quella stanza, lacrime cadevano dagli occhi di mia mamma, se in bocca hai i miei contenuti non hai sofferto abbastanza.”
Credi che questa voglia di rivalsa crescente possa essere un elemento che ti rende diverso da tutti gli altri?
Non so se questa fame possa distinguermi dagli altri, perché la scalata sociale è uno dei cliché del rap. Però mi auguro che le persone possano capire ciò che voglio comunicargli, come mi sono sentito e spero che ogni mio messaggio lanciato possa essere colto dall’ascoltatore.
La mia ultima strofa a parer mio lascia uno spunto di riflessione in chi ascolta davvero. Spero perciò che l’ascolto di questa canzone possa essere un buon investimento per tutti.
Anche per i brani che usciranno in futuro.

L’intervista finisce e spengo il registratore. Kefa torna ad essere Pietro. Ora è più leggero di prima. Ma non meno affamato. Ci diamo la mano di nuovo e ci salutiamo. Dopo 5 anni che lo conosco, mi sono reso conto di non averlo mai stimato tanto quanto in questo momento.
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